Quando andavo alle medie, nell’altra sezione c’era Poldo. “Poldino”, per essere precisi. Noi lo chiamavamo così perché assomigliava a “Poldo” l’amico ingordo di Braccio di ferro. Medesima stazza e medesima fame. Lasciare infatti il proprio panino nello zaino incustodito voleva dire che nell’intervallo si saltava lo spuntino. Con precisione chirurgica visitava tutte le aule, rigorosamente tutti i giorni e a nulla valevano i richiami, i rapporti o le ramanzine del preside.
Poldo non giocava mai a calcio, talvolta finiva in porta, dove per la stazza, rappresentava un punto di forza solo per la scalcinata squadra che lo ingaggiava. E se succedeva qualche sventura, potevi stare sicuro che era accaduta a Poldino. L’autobus rotto? A bordo c’era Poldino. Il pallone perso oltre il muro? Un tiro di Poldino. Le scarpe rubate in palestra? Quelle di Poldino. L’unico ombrello che non si apre sotto un nubifragio? Quello di Poldino. La stilografica che perde l’inchiostro sul registro di classe? Di Poldino. Una merda pestata? Poldino.
Poldino fu bocciato alla fine della prima media e lo persi di vista definitivamente. Solo qualche raro incontro, sempre in un ambiente lavorativo differente: dietro il bancone di una pizzeria, su un furgoncino da elettricista, come tecnico delle caldaie della Riello. Incontri sempre troppo veloci per fermarci a parlare dei ricordi di scuola, dei compagni di classe, di quello che la vita ci ha lasciato rispetto ai sogni di allora.
Qualche settimana fa, lungo la strada che faccio abitualmente per andare a lavorare, ho visto un furgoncino da “Street Food” completamente nuovo al posto di uno vecchio e fatiscente che per anni aveva occupato la medesima piazzola, anche la scritta “Porchetta & Salsiccia” era di un rosso splendente. Dietro al bancone, Poldo o uno che gli assomigliava tantissimo.
Ho frenato, sono sceso dalla bicicletta e levandomi gli occhiali da sole per guardarlo meglio ha esclamato: “Poldino!”. Ho visto che mi ha guardato, cercando nella memoria chi potesse chiamarlo con un soprannome così vecchio, che forse, si era dimenticato persino di aver portato. D’altronde io, un altro nome, magari il suo all’anagrafe, l’avevo dimenticato come il volto di tanti altri compagni di quegli anni.
Dopo un lungo attimo mi ha riconosciuto. Abbiamo scambiato due veloci battute, sorridendo infarciva panini di una discreta fila di clienti ed ero contento per lui.
Mi ha spiegato di come gli affari andassero finalmente bene, che aveva aperto da poco ma che era sicuro che da lì a poco avrebbe fatto il salto di qualità, magari con più camioncini in “francese”. Ho annuito serioso e solo dopo un po’ ho capito che voleva dire in “Franchising”. Ho declinato l’offerta di un panino con la porchetta che mi faceva una voglia incredibile per concentrarmi sulla barretta ai mirtilli che avevo già smangiucchiato e che portavo nel retro della maglietta sudaticcia.
Poldo mi ha detto che per l’inverno aveva già trattato con una fabbrica che avrebbe riaperto da lì a poco per mettersi nel suo parcheggio e che aveva assunto un sacco di immigrati. Un affitto modesto ma che sicuramente avrebbe recuperato con le vendite di un giorno. Ho annuito ancora, l’ho salutato calorosamente e gli ho augurato buona fortuna, ricominciando lentamente a pedalare.
Non ho avuto il coraggio di dirgli che sul giornale, quel giorno, c’erano due articoli che avrebbe trovato sicuramente interessanti: il primo riguardava la nuova ordinanza del sindaco contro gli “street food” e la proposta di una nuova tassa tutta per loro e il secondo, che si, arrivavano gli immigrati a riaprire come forza lavoro la fabbrica, ma essendo per buona parte mussulmani, porchetta e salsiccia non erano rientravano certamente nel menù.