La prima volta che andai a pesca avrò avuto più o meno sei o sette anni. Mi ci portò il nonno di un mio amico, un uomo dal carattere spigoloso un po’ irascibile dalle mani segnate da cicatrici profonde che solo le reti cariche di pesce possono lasciare.
Ma per me, che ero affascinato dai grossi marlin pescati da Santiago nel “Il vecchio e il mare”, era un’avventura di pesca da non perdere.
Ricordò che mi disse solo se mi avrebbe fatto piacere, al mio cenno di assenso mi allungò una lenza con il suo pezzo di sughero e mi disse di esercitarmi. “Basta sentire il piombo toccare il fondo e poi prendere due mani di lenza”. “Facile” pensai. Siccome allora andavamo al mare da Manarola a Monteresso, dove c’era la spiaggia di ciottoli, due volte al giorno andata e ritorno, sfruttavo quella che era la pausa pranzo a casa per calare dal piano superiore, al piano inferiore delle scale, la piccola lenza. Uno, due…dieci…cento volte. Mi sembrava di essere bravo: lenza, fondo, recupero. Lenza, fondo, recupero. Tanto che quando mi disse che il giorno dopo era il giorno buono per andare ero convinto che sarebbe stata una grande giornata di pesca. Non pensavo certo di tirare sotto bordo un marlin ma almeno uno di quei grossi pesci che mia mamma metteva spesso al forno con le patate.
Quando i miei vennero a svegliarmi ricordo che fuori faceva veramente buio. E se è buio d’estate, vuol di dire che è veramente ancora notte. Non ricordo se feci o no colazione, ma ricordo soltanto che indossai la mia tuta preferita, una tuta blu e che mia madre mi preparò uno zainetto con dentro una focaccia e un termos di thè. Anche il thè non ricordo se alla fine lo presi. Scesi con mio padre lungo la “tagià”, la stretta e ripida scalinata che portava e porta allo scalo di Manarola, dove a metà, mi aspettava il nonno del mio amico, stranamente, senza il “giacchio”, che pensavo, fosse un elemento imprescindibile per essere un vero pescatore.
Non mi disse una parola e insieme scendemmo gli ultimi scalini e raggiungemmo la barca che si dondolava placidamente legata allo scoglio. Saltammo a bordo con un tonfo leggero. Stava rapidamente sorgendo il sole e mentre ci spostavamo verso Riomaggiore, in lontananza vedevo rientrare le barche con le lampare che, di notte, simili a piccole lucciole, si spostavano sulla linea dell’orizzonte per la pesca all’acciuga.
Avevamo un piccolo motore, ma preferì mettersi ai remi, presumo, oggi, per riscaldarsi. Remava con slancio, colpi lunghi e secchi che lasciavano dietro di noi una piccola scia. Io guardavo le goccioline che cadevano dal remo che si sollevava leggero e piatto di pochi centimetri sopra l’acqua prima di riaffondare nuovamente. Ma soprattutto, ricordo che avevo un gran freddo. Stavo raggomitolato a prua, con il sedere bagnato dall’umido della notte che si era formato sulla piccola panca. Raggiungemmo “cannetto”, una piccola insenatura dove, mi indicò, scendeva una piccola fonte d’acqua dolce che si perdeva dopo un piccolo salto, direttamente in mare.
Ci spingemmo avanti ancora un po’, poi finalmente disse “ci siamo”. Non gettammo l’ancora, semplicemente ci lasciammo andare trasportati dalla corrente che era quasi nulla. Lui gettò la sua lenza, osservai i suoi lenti gesti e dopo pochi minuti tirò su il primo pesce della giornata che, una volta slamato, buttò in un secchio rosso che teneva sotto la panca. Non era grosso, ma intanto, era il primo.
Lo osservai per un bel po’, poi, quando mi sentii pronto, tirai fuori dallo zainetto la mia lenza e mi trovai di fronte al primo problema: nessuno mi aveva istruito su come fissare il pezzo di pesce all’amo. Dovetti quindi farmi aiutare, pungendomi qualche volta. Insomma, l’inizio non fu certo promettente e neanche a seguire, se devo essere sincero.
Mentre lui continuava a pescare con una certa frequenza e a tirare quindi a bordo pesci più o meno grossi, io continuavo a guardare il galleggiante che mi sembrava sempre immobile. Dico sembrava, perché un paio di volte, mi urlò di tirare su velocemente e mi ritrovai a fissare un amo penzolante inaspettatamente vuoto.
Poi, ad un certo punto, il galleggiante scese, di colpo. “Ecco, ci siamo!” pensai. E presi a tirare su velocemente. Ricordo che sentii la sua voce urlarmi dietro di fare piano, ma non c’era bisogno. Il pesce tirava, tirava con forza e io mi dovetti mettere in piedi. Recuperai la lenza senza avvolgerla per bene, buttandomela a grandi mani nei piedi. Che qualcosa non quadrava me ne accorsi dopo una decina di secondi, forse, qualche secondo prima di lui, anzi, decisamente prima di lui. Ad abboccare non era stato un pesce, bensì, un “incoccio” sul fondale. Quando anche lui se ne accorse, ormai era troppo tardi: la lenza giaceva ingarbugliata ai miei piedi ma soprattutto amo e piombini erano rimasti attaccati sulla roccia al fondale dopo un ultimo, poderoso, strappo.
Lui bestemmiò, io ci rimasi malissimo, più per la mia pessima abilità nella pesca che per il suo carattere e non pescai più per tutto il resto della mattinata. Rimasi in silenzio, a prua.
Verso mezzogiorno rientrammo. Questa volta a motore. Faceva veramente caldo e io mi ero per giunta dimenticato che sotto la tuta avevo il costume. Ci mettemmo un bel po’ a rientrare allo scalo di Manarola, dove tutti, grandi e piccoli facevano il bagno.
Mi diede il secchio dei pesci e rimanemmo d’accordo che si, presto, ci saremmo sicuramente tornati a pesca assieme. Mi sorrise, io sorrisi per cortesia, andai a casa e a pesca, in realtà, non ci andai mai più.