“Se ami il mare, #Ripesc-AMI” la nuova campagna in difesa del mare
Se vi aspettate di leggere un “Raimbow Six” di Tom Clancy, “Caimano 69. Sabbia e Polvere” di Mario Chima NON è il libro che fa per voi.
Nelle quasi 600 pagine non troverete mai la minuziosa descrizione di conflitti a fuoco tra “insurgents” e truppe speciali, né di nemici trucidati attraverso il mirino telescopico di qualche arma di precisione, anzi, di “colpi a segno” non ve ne è traccia alcuna.
Perché non ci sono? Perché un militare, che sa quanto dolorosa sia la guerra, sa anche quanto la vita è importante e che l’uso della forza è sempre e comunque l’ultima delle soluzioni possibili.
Ma ci sono descritte quelle azioni che sono state in certi momenti fondamentali per il proseguo del processo di pacificazione di quei Paesi, azioni che hanno valso medaglie e riconoscimenti in ambito nazionale ed internazionale agli operatori che le hanno affrontate.
Non ci troverete nemmeno frasi epiche su colline che odorano di napalm, al contrario, troverete però uno spaccato reale di quello che è la vita di un operatore delle forze speciali della Marina Militare.
Leggerete sicuramente dell’amicizia vera che nasce durante il corso ordinario incursori lungo i duri mesi selettivi, il legame indissolubile con il proprio “coppio”, la lealtà verso il gruppo, la nostalgia di casa richiamata dal profumo di un pessimo caffè bevuto in una tenda gonfiabile sotto un neon dalla luce bianca in un avamposto in terra straniera, leggerete dei “flashback” che riporteranno l’autore a ripercorre un viaggio lungo i teatri operativi più caldi degli ultimi trent’anni, dalle coste libanesi, ai monti dell’Afghanistan passando per le polverose strade irachene sino ai propri ricordi di bambino e di giovane aspirante-aspirante-aspirante incursore.
Talvolta chiedendosi anche che senso abbia tutto ciò, da che parte stia la ragione e chi è nel giusto e chi no, mentre, zaino in spalla, arma sulla schiena, ci si cala lungo un canapone a millemila chilometri da casa.
È un libro che affronta anche il lato “nero”, ovvero il ritorno a casa dopo una lunga missione, il Post Traumatic Stress Disorder”, una malattia spesso taciuta, malamente affrontata ma che in queste pagine acquisisce finalmente, nero su bianco, una dignità di nemico che andrebbe affrontato non in brevi e pretestuose visite psicologiche ma attraverso un vero e proprio programma di aiuto.
E c’è la malattia personale, nella quale, durante i mesi di attesa nella speranza di un ritorno in servizio, l’autore è riuscito a mettere, a mano libera e in forma quasi di diario, parte della propria vita.
Avrebbe potuto scrivere di più? Certo. Ma quasi tutto quello che contiene sono informazioni riservate che sono state autorizzate, in maniera centellinata, ad essere divulgate al pubblico.
Avrebbe potuto scriverlo meglio? Senza dubbio. Ma è un parere personale. Molto si capisce se si appartiene a quel mondo e se di quel mondo non si è solo dei fanatici. Sicuramente per amici, parenti, moglie e fidanzate, aiuta a dipanare quel “non te lo posso dire” che caratterizza questo lavoro o ancora quel “tutto bene, tutto tranquillo” che raccoglie invece situazioni ben oltre il limite.
Qualche spiegazione in più, qualche passaggio spiegato in maniera più elementare, nonché un linguaggio meno ricercato, aiuterebbe il lettore che si avvicina forse per la prima volta a questo mondo.
Ma non era un compito di “Chima” ma di un eventuale editor.
Nella speranza che questo possa essere il primo di una lunga serie di libri che possa finalmente divulgare quanto è stato fatto dai nostri operatori dei reparti speciali negli ultimi due decenni e quanto la definizione di super-uomini possa semplicemente essere sostituita da Uomini.
Fino al 15 dicembre si possono caricare foto scientifiche sulla piattaforma Wikimedia e partecipare al concorso che premia le migliori immagini di ricerca scientifica disponibili su Wikipedia.
A marzo, cerimonia di premiazione alla Scuola Normale.
Non faccio in tempo ad aprire il “box” appena consegnatomi dal corriere che già rimango piacevolmente sorpreso dalla confezione del mio “Cosmiq+“, il computer da sub dell’azienda taiwanese “Deepblu”: rigido, compatto e minimale e soprattutto, con nessuna plastica nell’imballaggio, con un occhio, quindi, attento e reale all’ambiente.
Aprendolo mi trovo davanti un computer colorato ma soprattutto già si capisce quanto possa esserne intuitivo l’utilizzo. Dal telaio compatto e robusto, con il suo schermo LCD da 2.2 pollici, quindi non eccessivamente grosso nelle dimensioni rispetto ad altri computer, ha all’interno della scatola due cinturini tipo NATO, uno in versione camouflage, abbastanza lunghi da permetterne l’utilizzo con la muta stagna, un cinturino elastico, due protezioni per il display, il cavetto USB magnetico lungo una cinquantina di centimetri per la ricarica e un manuale di istruzioni davvero “minimal”.
L’azienda, che non nasconde l’idea di puntare ad un pubblico giovane che difficilmente riesce a trovare un prodotto adatto, centra alla grande il prodotto. Non solo per i colori disponibili e per il prezzo (si trova sul sito ufficiale a circa 300 euro) ma per la connettività “Bluetooth 4.0” che ne permette, con un accoppiamento velocissimo, di impostarne le peculiarità dell’immersione direttamente tramite un’intuitiva e dedicata “app” sul proprio smartphone.
È questo il vero punto di forza del computer, l’app “Deepblu” (settata anche per l’italiano) che è un vero e proprio social network delle immersioni che permette di condividere il proprio “logbook” elettronico con tutto un network di appassionati.
La durata della batteria, testata in mare, ha una durata di circa 10 ore che permette quindi almeno 6-7 immersioni tranquille mentre in modalità stand-by arriva anche ad un mese e mezzo.
Pre – Immersione.
Da computer “entry-level” permette di effettuare solo immersioni in aria o nitrox, fino al 40%, senza stage decompressivi e il settaggio avviene velocissimo, dopo averlo “accoppiato” sullo smartphone tramite “app” possiamo regolare i nostri parametri di PpO2, allarme di profondità e scegliere nell’algoritmo (Bühlmann ZHL-16C), se immergersi con profilo Conservativo, Normale o Progressivo.
L’intervallo di superficie tra un’immersione e l’altra è 5 minuti, sotto quell’intervallo, l’immersione vale come un tuffo unico.
Durante – Immersione.
Lo schermo LCD da 2,2 pollici, con la retroilluminazione permette una lettura precisa e immediata in acqua, anche se, con il sole a picco, negli ultimi metri, si deve un po’ inclinare il braccio per una migliore lettura.
Il tempo rimanente durante la “No Deco Time” viene data con un “countdown” da 180” a 0” e personalmente, rispetto ad altri, la trovo una cosa più facile e divertente.
Permette di effettuare solo immersioni in aria o nitrox, fino al 40%, senza stage decompressive.
Esiste anche una modalità “Apnea” davvero utile che trasforma il “Comsiq+” in un versale computer adatto anche al “freediving”!
Profondità, tempi di immersione e l’importante tempo di recupero vengono visualizzati in maniera agevole sullo schermo LCD e con 3 allarmi di profondità non ha nulla da invidiare a più blasonati “brand”.
Post – Immersione.
Nel complesso il “Cosmiq+” si è rivelato davvero un bel computer subacqueo con i “pro” che ho già elencato, i punti negativi erano la memoria, dove potevano essere registrate solo 25 immersioni, gli allarmi nell’apnea che erano solo 3, e la necessità di avere uno schermo più lucente.
Tutte novità che l’azienda mi ha comunicato di aver implementato, avendo portato la memoria a 200 immersioni, gli allarmi per il settaggio apnea da 3 a 6 e potenziato ulteriormente lo schermo LCD.
Insomma, rapporto qualità/prezzo fanno del “Cosmiq+” il miglior computer sub della sua categoria.
Lavorare ad un progetto di #EconomiaCircolare come i “SeaGlasses” per ridare nuova vita al #MarineLitter trasformandolo in occhiali da sole attraverso la stampa 3D.
Se uno sport ambisce a diventare sport olimpico, deve avere una serie di requisiti, il primo, la diffusione a livello mondiale, il secondo, una preparazione tra atleti, allenatori, dirigenti, giudici, in grado di avere rispettabilità internazionale che porta inevitabilmente ad un mondo professionistico serio e non un di un dilettantismo di alto livello. Poi ci vuole un appeal mediatico e i relativi sponsor per sostenere il tutto.
Alcuni sport ci sono riusciti, prendiamo ad esempio le discipline dello Snowboard che da sport “freak” sono diventate anima degli “X Games” invernali e poi con un circuito internazionale che è cresciuto via via di dimensioni e che è entrato poi nella FIS e da lì sul grande palcoscenico delle Olimpiadi.
Si è perso qualcosa? Magari della magia e della spontaneità della prima ora ma dai numeri di praticanti e dal successo televisivo, oggi lo “sci da tavola” ha più praticanti dello sci alpino.
Negli ultimi mesi si è parlato molto di portare l’apnea alle Olimpiadi estive (o meglio, di riportala, come potete leggere qui) e il palcoscenico dei giochi mondiali CMAS in svolgimento in Grecia in questi giorni doveva essere la vetrina internazionale per far vedere al mondo tutto il relativo “circo” di prestigio fatto appunto di atleti, allenatori, giudici, dirigenti e organizzatori.
Dico “doveva” perché quanto successo ieri all’atleta spagnolo (tralascio volutamente il nome) mette in evidenza ancora una volta i forti limiti che ha ancora l’apnea ai giorni d’oggi.
La sincope subita a grande profondità dallo spagnolo ha messo in luce che molti atleti affrontano oggi profondità abissali con troppa leggerezza, a fronte di un’ottima tecnica compensatoria (magari più per questioni fisio-anatomiche naturali che per studio relativo) sono in grado di compensare “hands free” o in “mouth fill” etc. etc. azzerando quindi in tale maniera il principale “gap” con la profondità e pensando che sia sufficiente a discapito della tecnica di pinneggiata e di gestione del tuffo.
Mette in luce anche i limiti dell’allenatore spagnolo che dovrebbe saper far gestire al proprio atleta la quota dichiarata e che essa non sia superiore alla “migliore prestazione personale”, per intenderci quella che viene per una serie di fattori “C” ma quella che sa gestire al meglio delle proprie capacità.
Passiamo poi alla gestione invece dell’evento. Se si organizza un mondiale si suppone che gli atleti che arrivino siano i migliori atleti al mondo, in grado quindi, visto che le quote attuali si aggirano sui 100 metri in assetto costante, di saper gestire questo tipo di immersioni durante le quali il corpo umano subisce importanti variazioni fisiologiche molte delle quali ancora sconosciute.
Per saperle gestire significa mettere in atto una serie di fattori che vanno a ridurre il rischio relativo di incidente. Dico ridurre perché non esiste la possibilità, come in ogni evento, di azzerare il rischio.
Ci vuole quindi uno “staff” competente, fatto di professionisti e non di volontari ed essendo un mondiale questo dovrebbe essere un requisito neanche da verificare.
L’assistenza in profondità negli ultimi 20 anni ha subito un sostanziale cambio di gestione, si è appurato infatti che i subacquei di profondità non sono ottimali per tre motivi: il primo, perché scendere a -100 metri e oltre presuppone di attivare un’assistenza dedicata (un aiuto all’aiuto per intenderci, che diventa quindi paradosso di sé stesso). Secondo, un numero spropositato di subacquei, visto il tempo di una gara è di diverse ore e che quindi devono per forza alternarsi. Terzo che il rischio di una sincope, per il gioco delle pressioni parziali dei gas respiratori, si consuma negli ultimi 30 metri di risalita, anche perché l’atleta dovrebbe scendere a quote che effettivamente ha a portata e non un tuffo largamente oltre le proprie capacità.
Inoltre, l’introduzione del sistema del contrappeso, che, attraverso un lanyard vincolato è in grado, quando attivato, di riportare in superficie l’atleta senza il rischio di perderlo in mare.
E dopo l’incidente di ieri, appare chiaro che sia ancora il sistema migliore, visto che, solo la sua attivazione ha permesso di evitare che si consumasse una tragedia. Anche laddove ha funzionato non perfettamente, ha permesso comunque di tenere l’atleta vincolato al cavo.
Anche Il tempo che dal video appare infinito in realtà è il tempo minimo necessario affinché il contrappeso si attivi. Sicuramente sarebbe più opportuno che il sistema venga attivato ad ogni singolo tuffo ma questo porterebbe, in una competizione con decine di atleti, a tempi di attesa troppo lunghi per ripreparare le linee di gara.
L’introduzione dei “safety” con gli scooter è una buona soluzione, ricordandoci che il loro compito dovrebbe essere quello di assistenza e non di gestione dell’emergenza. E non è un concetto banale!
Necessiterebbero di lavorare quanto meno in coppia per garantire non solo la piena assistenza all’atleta ma anche la propria. E alternarsi con altri dopo una serie prestabilita di tuffi, questo perché anche loro necessitano di una sicurezza relativa.
Il compito primario e unico del “Safety” dovrebbe essere di accompagnare nella risalita e nel caso evidente di una pre-sincope, agevolare l’uscita e il sostegno in superficie dell’atleta, evitando che egli ricada verso il fondo e quindi rischiando, con le vie aeree aperte, di ingerire acqua.
Il “safety” dovrebbe essere dotato di una buona tecnica apneistica, avere materiale idoneo (nel video il safety ha delle pinne da scuba, insufficienti a fornire una corretta spinta nel momento in cui oltre a sé stesso lo scooter deve spingere due persone), conoscere una corretta tecnica di presa dell’infortunato e al momento, non mi pare che ci sia un corso di salvamento per “safety” organizzato da qualunque federazione, nemmeno una procedura standard codificata.
(inoltre ieri il safety non aveva più fiato, segno di aver sbagliato totalmente i tempi del tuffo)
Magari dovrebbe essere un “diver medic”, per intenderci quelli con certificazione “YMCA” che li renderebbe quindi a tutti gli effetti dei paramedici.
Sarebbe opportuno che in acqua, oltre al ROV che ci permette di rimandare in onda le immagini della diretta, vi sia un sonar sulla piattaforma, in grado di segnalare ai giudici costantemente la quota dell’atleta e se sta risalendo troppo lentamente, facendo attivare con largo anticipo il sistema del contrappeso. Ma anche una serie di subacquei che a quote ricreative, possano fornire un’extra assistenza magari collegati fra loro e la superficie attraverso un sistema di comunicazione.
Anche dalla gestione in superficie si vede una scarsa competenza medica. Dalla foto che gira sui social, lo staff medico non è riconoscibile e questo è un’altra grave mancanza.
Il “Team Medico” non deve essere confuso in mezzo ad altri.
L’apneista viene tirato a bordo in qualche modo, non si vedono infatti pedane per un recupero agevolato vicine alla barca, né la presenza di un gommone che dovrebbe essere attivo proprio per la gestione dell’emergenza con un medico rianimatore che abbia con sé tutto quanto gli serve. (ci torniamo sopra con il post di due rianimatori).
Viene legato infine sulla barella a poppa, in posizione scomoda tanto per gli operatori quanto pericolosa per l’apneista stesso che potrebbe ricadere in acqua! A che pro? Ci viene da chiederci.
Inoltre, sembra che nessuno di quelli che sta completando l’operazione sia un medico, dove è quindi lo staff medico?
Insomma, chi esce malconcio dall’esperienza insieme all’atleta è sicuramente la CMAS che non è riuscita a dimostrare, al momento, di avere sotto controllo il principale requisito per un evento mondiale: la sicurezza!